In Italia centinaia di “medici hanno lavorato per anni senza titoli” in quanto ufficialmente i loro incarichi erano a tempo determinato, anche se rinnovati per anni, “e hanno giustamente chiesto di vedere riconosciuta la loro esperienza sul campo, come prevede la normativa comunitaria”. Il giudice “ha detto di non poterlo giuridicamente fare, in una sorta di ‘vorrei ma non posso’, certificando che centinaia di professionisti hanno lavorato in violazione della stessa norma italiana e della norma europea”. Ma “il riconoscimento dell’esperienza professionale e della formazione complementare oggi per noi è doveroso sia per i medici, sia per i cittadini, perché nel momento in cui si mettono in servizio migliaia di persone” prive dei titoli richiesi dalla normativa europea e italiana, “si dovrebbe riconoscere il titolo attraverso la formazione complementare, perché altrimenti si danneggiano non solo i medici ma anche i cittadini, che ad esempio nella situazione attuale devono cambiare il medico di famiglia ogni tre o sei mesi o utilizzare servizi di emergenza legati a persone che oggi ci sono, domani chissà”. Parlando alla ‘Dire’, il presidente dello Snami (Sindacato nazionale autonomo medici italiani) dell’Emilia-Romagna, Roberto Pieralli, commenta così le sentenze del Tribunale civile di Roma che, pur respingendo le richieste di 78 medici di vedersi riconosciuto il diploma di formazione sulla base dell’esperienza professionale, hanno “certificato la consuetudine, in tante regioni, di compensare una carenza di programmazione per quanto riguarda i medici di medicina generale usando dottori a tempo determinati privi dei titoli richiesti dalla legge europea e nazionale”.
Il problema fondamentale, secondo Pieralli, è proprio la norma nazionale, in base alla quale “un medico che fa i corsi di formazione è in buona parte incompatibile con l’attività professionale”. Oggi, aggiunge, “con i 17.000 posti aperti nelle scuole di specializzazione ci troviamo tantissimi medici ‘sequestrati’, perché resi incompatibili con la possibilità di lavorare”, con il risultato di “togliere servizi ai cittadini”, e le prime due sentenze emesse dai giudici civili di Roma, a cui a breve “se ne aggiungeranno altre, perché centinaia di medici si sono rivolti ai Tribunali, hanno certificato questo paradosso, che come sindacato non lasceremo passare”.
Il fenomeno della carenza di professionisti, osserva poi il sindacalista, “è presente ovunque, ma prevalentemente al Centro-Nord, ed Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto e Toscana sono le regioni più in sofferenza, soprattutto nei settori meno appetibili come il lavoro notturno e l’emergenza”, ma ora “queste sentenze ci mettono nelle condizioni di portare, come già è stato in parte fatto, il problema a livello comunitario”. Infatti, se “nei Tribunali si andrà avanti con i successivi gradi di giudizio, intanto ci siamo attivati a livello comunitario. Noi ci eravamo già rivolti, alcuni anni fa, alla Commissione europea, che però ci disse di rivolgerci ai Tribunali, dal momento che la norma italiana è formalmente impeccabile: lo abbiamo fatto e ora trasmettiamo loro le sentenze, dimostrando che questi medici hanno esercitato per anni senza titoli, che non vengono loro riconosciuti come la stessa direttiva comunitaria prevederebbe”.
Una risposta dall’Europa, chiosa Pieralli, potrebbe arrivare “nel giro di alcuni mesi, ma comunque noi andremo avanti finché questa storia non sarà risolta”.
Le speranze maggiori, visto come si è sviluppata la situazione finora, sono riposte nella Commissione europea, visto che “per il momento il Governo tende a rifare quanto fatto in passato, vale a dire aumentare i posti di specializzazione”. Finché, però, “non si cambia norma, uno dovrà sempre decidere se lavorare o studiare”, e un altro elemento che non induce all’ottimismo è che l’Avvocatura dello Stato “nelle sue difese finora ha ripetuto lo stesso errore, dicendo che i medici in servizio avevano tutti il diploma di formazione”, un errore che, secondo Pieralli, non è casuale, ma dettato dal fatto che “sanno di essere indifendibili”.
Sul punto, il rappresentate dello Snami ricorda che “la direttiva comunitaria caldeggia la possibilità di riconoscere l’esperienza professionale. Se un medico- spiega- ha già fatto un percorso di specializzazione, mi aspetto che questo sia riconosciuto se decide di passare alla medicina di famiglia, mentre in Italia deve ricominciare da capo, con inevitabile spreco di risorse pubbliche, perché si bada più alla forma che alla sostanza”. L’auspicio, ovviamente, è che “il legislatore prenda consapevolezza di questi problemi, ma se la politica non riesce a liberare i medici ostaggio di questo sistema demenziale bisognerà liberarli in altro modo”.
Per quanto riguarda la parte legale della vicenda, invece, l’avvocato Alberto Santoli afferma che le sentenze del Tribunale civile di Roma “sembrano una sconfitta ma non lo sono”. Secondo il legale, è stato riconosciuto che in Italia “ci si è rifugiati dietro il termine ‘possono’ della direttiva europea”. Purtroppo, aggiunge, i giudici non si sono soffermati a sufficienza sul fatto che “l’Europa dice anche che gli Stati membri ‘stabiliscono’ in che misura riconoscere la formazione complementare e l’esperienza professionale in sostituzione della formazione, e non ‘possono stabilire’, il che presuppone non una facoltà, ma un obbligo”.
In ogni caso, fa sapere Pieralli, le pronunce di primo grado “sono già state notificate alla Commissione europea, rilevando una possibile infrazione, che anzi per noi è certa, della direttiva europea”. La direttiva, ribadisce infatti il presidente regionale dello Snami, dice infatti che “per esercitare quelle funzioni serve quel titolo, oppure un titolo rilasciato riconoscendo un altro tipo di formazione o esperienza professionale. Nel resto dell’Unione europea questo avviene, da noi invece il diploma di formazione serve solo per lavorare a tempo indeterminato”, previsione che, secondo il sindacato, in Italia è stata sostanzialmente ‘aggirata’ “rinnovando per anni dei tempi determinati”.