Dopo la rimozione da parte del Comune di Ravenna dei manifesti contro la pillola abortiva RU486 fatti affiggere in città dall’associazione Pro Vita & Famiglia è scoppiata la polemica politica ed è arrivata la diffida dell’associazione per “abuso d’ufficio in atti di discriminazione politica e condotte diffamatorie da parte dell’assessore Ouidad Bakkali e dei funzionari amministrativi e politici del Comune di Ravenna»

L’assessore Bakkali aveva chiesto a Ravenna Entrate ed ottenuto la rimozione dei manifesti con la seguente motivazione: “Ritengo tale comunicazione altamente disinformativa e lesiva della dignità della donna e della libertà di scelta.

Mantenere affissi questi manifesti contribuisce a diffondere informazioni sbagliate dal punto di  vista medico-scientifico.

L’interruzione volontaria della gravidanza è legale in Italia dal 1978 grazie alla Legge 194 e confermata da referendum popolare”.

L’assessore aveva poi aggiunto: “Questa campagna ancora una volta colpevolizza le scelte delle donne, offende la nostra intelligenza e aggredisce il dolore di tante”.

Quella avvenuta a Ravenna non è l’unica reazione sdegnata ai manifesti dell’associazione che equiparano la pillola abortiva ad un veleno. Dal canto suo l’associazione non è nuova a manifesti in grado di suscitare forti reazioni e polemiche. In passato è già avvenuto sempre in materia di aborto, poi di eutanasia e di diritti per la comunità LGBT.

Le opposizioni ravennati, però, dopo la rimozione di questi giorni dei manifesti hanno attaccato il comune.

A polemizzare con l’amministrazione comunale sono stati quindi la Lega: ““Ci troviamo davanti ad una vera e propria censura ideologica perpetrata da parte della Giunta di sinistra di Ravenna, ormai divenuta sistematica in tante città del nostro Paese”. Così i leghisti Andrea Liverani, consigliere regionale, e Gianfilippo Rolando “Il falso messaggio che sta passando – rimarcano gli esponenti- non è quello di Pro Vita come qualcuno cerca di far credere, semmai è quello mainstream che cerca di accelerare sempre di più il processo di desacralizzazione della vita umana e di banalizzazione dell’aborto, come se non si trattasse nemmeno più di un dramma. Ben venga invece il confronto, il dibattito affinché possa finalmente passare il messaggio che quella pillola non è affatto una caramella, non è innocua e indolore e che l’aborto non è un metodo contraccettivo”.

Inoltre i due leghisti  continuano: “Oggi si rischia di essere etichettati e censurati per la sola ‘colpa’ di essere dalla parte della vita. Questo la dice lunga su coloro che, almeno all’interno del nome del loro partito, si fanno chiamare ‘democratici’, quando poi, come in questo caso, sono i primi a negare quella libertà che tanto invocano tramite decisioni liberticide come quest’ultima presa nei confronti dei manifesti di Pro Vita e Famiglia”.

“Il Partito Democratico, al posto di ostacolare in tutto il Paese la libertà di espressione e di pensiero di chi non la pensa come loro o di chi semplicemente non rispetta i parametri politicamente corretti del pensiero unico, dovrebbe pensare bene di trovare soluzioni alla drammatica crisi demografica che vive il nostro paese, dato che nascono sempre meno bambini. Ogni anno tocchiamo il minimo storico delle nascite dall’Unità d’Italia ad oggi. Si dedicassero ad approvare le politiche pro family e pro life per cercare di invertire questa tendenza, invece di respingerle sempre e comunque in modo ideologico”.

e Lista per Ravenna col capogruppo in consiglio comunale Alvaro Ancisi: “Parlo come amministratore comunale – non da politico quale non sono neanche più – dei manifesti sulla pillola RUE486 affissi sui muri delle strade dal Comune e dallo stesso rimossi. Essendo ciò avvenuto all’insaputa della committenza, che aveva onorato tutti gli obblighi e i carichi propri, si tratta di una pagina disdicevole per la pubblica amministrazione a prescindere da qualsiasi dibattito politico sui contenuti. Prestando anche il fianco ad azioni giudiziarie in quanto operazione arbitraria, mi corre l’obbligo di chiedere spiegazione al sindaco dei suoi aspetti più paradossali.

  1. Il competente servizio del Comune di Ravenna aveva visionato la grafica e il messaggio dei manifesti. Non trovandovi evidentemente contenuti contrari ad alcuna normativa vigente, ha provveduto ad affiggerli. La successiva loro rimozione rappresenta quindi, in primo luogo, un comportamento contraddittorio. Casomai, essendo l’Italia uno stato di diritto, si sarebbe dovuto contestare alla committenza le supposte violazioni di legge, riconoscendole il diritto di esporre le proprie ragioni prima di qualsiasi azione a suo carico. Democrazia e basta, oltreché un elementare dovere d’ufficio. Esposizione anche ad azioni civili per il risarcimento del danno.
  2. La motivazione di tale decisione, indirizzata alla committenza solo a seguito di sua richiesta successiva alla pubblicizzazione del fatto, appare oggettivamente indebita, in quanto riferita alla violazione degli articoli 9 e 10 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria. Questi articoli si richiamano esplicitamente alla “comunicazione commerciale”, che tutela i consumatori dalle offerte pubblicitarie di prodotti da acquistare o in cui investire. Non è il caso in questione, trattandosi invece, in senso tecnico, di “comunicazione sociale”, destinata, condivisibile o no, alla generalità dei cittadini, regolata invece dall’art. 46 del Codice stesso. A questo proposito, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria riconosce indiscutibilmente (vedi Giurì, decisioni 84/2018 e 59/2019) che: “Un principio generale del nostro ordinamento … garantisce alla comunicazione sociale e politica ampi margini di libertà, in ragione dell’esigenza di tutela della libertà di espressione del pensiero, in Italia anche costituzionalmente garantito. Analoga garanzia costituzionale non esiste per la comunicazione commerciale […]”, tra l’altro non essendo la comunicazione sociale neppure sottoposta al “principio di veridicità”.
  3. Nella decisione ha avuto ruolo e influenza, per affermazione del servizio Entrate, anche il Comune, inteso esplicitamente come dirigenza politica, essendo avvenuta dietro richiesta di “tempestiva rimozione dei manifesti comparsi in città in queste ore”, firmata da Ouidad Bakkali come “Assessora alle politiche e cultura di genere”, in veste dunque, nella materia in oggetto, di sindaco facente funzioni. Tutto ciò può essere facilmente impugnato come violazione di un principio cardine della pubblica amministrazione italiana che attribuisce assoluta autonomia alla dirigenza tecnica da quella politica nella gestione dei servizi o attività che le sono dati in carico (vedi, in particolare l’art. 107 del Testo Unico che regola tra l’altro i Comuni). Democrazia e basta anche questa.
  4. La gestione di tutte le pratiche delle affissioni era affidata da sempre ad una bravissima impiegata (che non conosco e non so neanche chi sia) senza posizione alcuna di responsabilità, alla quale non può essere attribuito alcun compito che non sia la corretta ed esaustiva trattazione della pratica e la verifica degli adempimenti richiesti ai committenti, non certo la valutazione ideografica e ideologica dei manifesti sulla base della loro corrispondenza a dei “princìpi” generali da interpretare. È stata bruscamente, per non dire peggio, rimossa da questa funzione, immediatamente assegnata ad altra persona del medesimo livello. C’è sicuramente qualcosa che non va alla radice del servizio, ma che se ne scarichi le colpe sull’anello debole è prima di tutto un’offesa alla dignità di una persona che fa onestamente il proprio lavoro, impossibilitata anche a difendersi, a meno che non battano un colpo i sindacati dei lavoratori”.