“Dal 1919 al 1922, l’Italia era devastata da un crescendo di violenze fasciste, repressione delle forze dell’ordine con decine di morti tra i lavoratori, sostanziale disinteresse da parte dei Governi che si succedevano. Con la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, Mussolini sarebbe diventato Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia.
Socialisti e repubblicani erano in urto da decenni, non solo per il diverso porsi di fronte alla Prima guerra mondiale che aveva visto pochi anni prima – nel 1915 – i primi neutrali e i secondi interventisti.
C’erano anche immediate questioni economiche che avevano diviso i braccianti – prevalentemente socialisti – dai coloni mezzadri ovvero i contadini – prevalentemente repubblicani. Nel 1910 la Camera del Lavoro unitaria aveva subito una scissione da parte dei lavoratori facenti capo al partito repubblicano che avevano così fondato la Nuova Camera del lavoro. Vecchia e Nuova Camera del Lavoro si trovavano così a disputarsi i lavori agricoli avendo come riferimento i mezzadri e i proprietari dei terreni da loro coltivati riuniti nell’Associazione agraria.
Nel ravennate, si erano consolidate le organizzazioni dei lavoratori, in particolare dei numerosissimi lavoratori agricoli, braccianti e contadini. Esistevano partiti popolari e sindacati organizzati con decine di migliaia di iscritti e simpatizzanti su un territorio che aveva la metà degli abitanti odierni. Obiettivo da tutti condiviso, migliorare le condizioni di vita e di lavoro degli iscritti e, per questo, disposti a promuovere e sostenere lunghe e dure vertenze. Nel 1922, tra i lavoratori, i più presenti erano i socialisti e i repubblicani. Appena costituiti ma ben presenti, i comunisti.
I socialisti interpretavano le crescenti violenze contro i lavoratori come dovute a “gente che non si appaga dei pingui guadagni prodotti dalla fatica dei lavoratori e che sogna le tariffe di fame del buon tempo antico, di quando i signori di Ravenna amavano cavalcare per le campagne elargendo un ventino a tutti i braccianti che incontravano”.
Nel luglio 1922, Ravenna era al tempo ancora libera dal fascismo ma sempre più accerchiata da Comuni ormai occupati dagli schiavisti, come erano chiamati i fascisti dai repubblicani, socialisti e comunisti. La Voce repubblicana scriveva in quei giorni: “il fascismo a Ravenna rappresenta interessi della parte padronale”. L’Ordine nuovo, quotidiano comunista, raccontava di come i fascisti fossero pagati dai baroni dell’Agraria e fossero commissionati a pagamento omicidi dei capi delle organizzazioni operaie.
In questo clima, cento anni fa, un conflitto locale tra birocciai delle Vecchia e Nuova Camera del Lavoro – quelli che oggi chiameremmo i camionisti – e l’Unione commerciale unita all’Associazione agraria – che riuniva i proprietari terrieri – si inserì nelle vicende che stavano portando l’Italia alla dittatura fascista. La parte padronale non intendeva confermare un contratto di trasporto con scadenza al 1925 ed apriva alla collaborazione con il sindacato birocciai filofascista appena costituito da pochi fuoriusciti dalla Nuova Camera del Lavoro Dopo che ai birocciai esclusi fu impedito dai fascisti il 24 luglio di entrare a Ravenna per manifestare, le organizzazioni Vecchia e Nuova Camera del Lavoro dichiararono unitariamente uno sciopero generale per il 26 luglio. La questione – come scriveva la Voce repubblicana – non era più solo economica, per il mancato rispetto del contratto dei birocciai. Era ormai politica, “per la difesa della libertà”.
La mattina del 26 luglio, davanti a porta Adriana, si radunarono migliaia di manifestanti fronteggiati da un cordone di forze dell’ordine. Alcuni birocciai filofascisti cercarono di impossessarsi di un autocarro. A questo seguirono lanci di bombe a mano e colpi di pistola vicino al circolo repubblicano con i primi feriti. Giovanni Balestrazzi, un fascista, fu linciato e la situazione divenne caotica.
Quel che è riportato è che le forze dell’ordine presenti spararono e rimasero a terra nove manifestanti individuati in sei repubblicani, due socialisti, un comunista.
⦁ Gino Benzoni, 21 anni di San Zaccaria;
⦁ Cesare Missiroli, 17 anni di San Bartolo;
⦁ Ersilio Pasini, 27 anni di Pievequinta;
⦁ Ulisse Raggi, di 54 anni di Castiglione di Ravenna;
⦁ Dino Silvestroni, 19 anni di San Pancrazio;
⦁ Guglielmo Tumidei, 40 anni di Castiglione di Ravenna;
⦁ Luigi Giovanni Balestra, 18 anni, di Ravenna;
⦁ Ugo Bustacchini, 28 anni di San Pancrazio;
⦁ Stefano Ricci, 21 anni di Russi.
Arrivano a Ravenna i capi fascisti, tra cui Italo Balbo, ex repubblicano, con migliaia di fascisti. Il giornale fascista scrive che solo da Bologna arrivano in 1.500. Seguono altre violenze e devastazioni dei circoli dei lavoratori, la conquista della Casa del Popolo repubblicana di via Paolo Costa e l’incendio della sede della Federazione delle Cooperative, ai tempi dove ora si trova il palazzo della Provincia.
Il partito repubblicano ravennate vede sopraffatti uomini come Teobaldo Schinetti in favore della fazione di Pietro Bondi – più ostile ai socialisti – e stipula un concordato con i fascisti. Si andava così a raggiungere il risultato perseguito da parte padronale di dividere i repubblicani dai socialisti e comunisti nella difesa dei lavoratori. Nel giro di pochi mesi, il Comune retto dal Sindaco repubblicano Fortunato Buzzi si dovrà dimettere e anche per Ravenna iniziano le persecuzioni, confino o esilio per i repubblicani antifascisti come Arnaldo Guerrini, i socialisti, comunisti e anarchici.
Il Consiglio comunale di Ravenna approvò l’8 ottobre 2002 un ordine del giorno a maggioranza. Tra qualche imprecisione, si chiedeva di intitolare una strada o una piazza al “26 luglio 1922: strage di Ravenna”. In questi anni di cementificazione sfrenata del territorio non è mancata la costruzione di nuove strade eppure si è riusciti ad intitolare ad un anonimo “Sciopero del 26 luglio 1922” solo una rotonda nella periferia di Mezzano. Oltretutto, un luogo da cui non proveniva alcun manifestante ucciso.
Il nostro territorio ha visto innumerevoli scioperi ma una sola strage a seguito di uno sciopero. La strage del 26 luglio 1922.
D’altra parte, chi ha governato il Comune in questi decenni ha chiarito bene le priorità. I grandi imprenditori meritavano il cambio di denominazione di una via centralissima come via XIII giugno in via Serafino Ferruzzi (nel 1997) via Raul Gardini (2003) già via Romolo Gessi. Ai manifestanti uccisi per la libertà, una rotonda in una lontana periferia.
A Ravenna, l’antifascismo rimase sempre vivo nel Ventennio fascista.
Per capire la storia e l’identità del nostro territorio occorre andare con la memoria ai fatti del 26 luglio 1922. Anche se sono dolorosi e alcuni preferirebbero colpevolmente dimenticare come il silenzio tombale della Amministrazione de Pascale ci dimostra.
Ravenna in Comune vuole contribuire a tenere viva la memoria dei fatti di cento anni fa.
Alessandro Portelli, storico ed autore di un grande libro sulla strage delle Fosse Ardeatine, scriveva qualche tempo fa che “La memoria non serve per farci sentire in pace con noi stessi e per chiudere le ferite.
La memoria serve per disturbarci, e per tenerle aperte”.”