L’ortoplastica è una nuova specialità chirurgica che si occupa del trattamento multidisciplinare delle patologie più complesse dell’apparato locomotore post traumatiche, infettive, postinfettive ed oncologiche. Le figure professionali coinvolte, di estrazione diversa, hanno affinato competenze allargate agli altri settori coinvolti nel corretto approccio a problematiche demolitive e ricostruttive che non trovano risposte adeguate e definitive negli altri ambiti specialistici.

I componenti del team uniscono e fanno proprie  conoscenze nel campo ortopedico, della chirurgia vascolare, della chirurgia oncologica, ricostruttiva e della microchirurgia.

“Si lavora come in un’orchestra – commenta il prof. Arnaldo Filippini, chirurgo oncologo e ricostruttivo a Maria Cecilia Hospital, ospedale di Alta Specialità a Cotignola (RA) –. L’ortoplastica nasce in risposta al notevole aumento di pazienti affetti da patologie eterogenee dell’osso e dei tessuti molli. Le cause di ciò si possono riscontrare, tra le altre, nell’ampliamento del target di pazienti che può ricevere oggi una protesi, dal paziente molto giovane a quello molto anziano. C’è stato quindi un incremento notevole dell’attività sia in senso post traumatico che degenerativo e oncologico. Gli eventi avversi che ne sono generati hanno fatto sì che si sviluppasse dunque una nuova chirurgia, con l’obiettivo di recuperare situazioni problematiche prima di arrivare alla necessità dell’amputazione dell’arto”.

Ad oggi esistono ancora pochi centri In Italia specializzati in ortoplastica come Maria Cecilia Hospital, dove l’attività è anche accreditata con il SSN. I numeri parlano chiaro: si stima che globalmente il 12,5% degli interventi di chirurgia ortopedica traumatologica e oncologica evolva in un’infezione da lieve a grave (25 mila casi su 200 mila interventi) e nell’ambito degli interventi e reinterventi di chirurgia protesica si rileva un’infezione dal 2 al 7-8% dei casi.

“Abbattere l’incidenza di queste infezioni è difficile: oggigiorno in sala operatoria vengono già attuate tutte le precauzioni necessarie per evitare le infezioni intraoperatorie – spiega il prof. Filippini –. Quello che sicuramente si può migliorare è la fase diagnostica: una diagnosi precoce e di conseguenza un trattamento tempestivo comportano un miglioramento significativo della prognosi”.

L’équipe del prof. Filippini si occupa di osteomielite e di ferite difficili a Maria Cecilia Hospital da quasi 2 anni e la sua attività segue anche le problematiche delle ferite post trattamenti oncologici e l’ambito ricostruttivo.

“Si sente la necessità di creare una struttura la cui mission sia la diagnosi e la cura delle infezioni ossee e delle ferite difficili. È un progetto che vediamo prendere vita giorno dopo giorno qui a Cotignola. L’obiettivo è essere un punto di riferimento in Italia per i pazienti affetti da queste patologie e poter quindi restituire alla società persone indipendenti, libere di muoversi secondo il proprio desiderio, conclude il prof. Filippini.

Osteomielite: che cos’è?

L’osteomielite è una grave infezione batterica delle ossa e del loro midollo.

Si possono differenziare due principali forme di osteomielite. La prima è definita ematogena: consiste in un’infezione localizzata (si verifica soprattutto nei bambini) da cui i germi trovano un portale per accedere al flusso sanguigno. Da qui vengono distribuiti nel corpo e in particolare l’osso è un luogo fertile per il loro impianto. Si cura con antibiotici e con il drenaggio della ferita.

Si riscontra poi un’osteomielite post traumatica: dopo una frattura esposta, oppure dopo un intervento di chirurgia post-traumatica o di protesizzazione, si può sviluppare un’infezione dell’osso. L’osteomielite in questo caso è “subdola” in quanto inizialmente non dà particolari sintomi. Nel momento in cui l’infezione resiste ad una corretta terapia antibiotica per sei settimane e ad una prima revisione chirurgica, il Ministero della Salute la definisce “osteomielite cronica refrattaria”. È questa una patologia da cui è difficile ottenere una reale guarigione, anatomica e clinica. Può rimanere silente per molto tempo, ma capace di riacutizzarsi anche dopo un’apparente guarigione. I pazienti sono dunque tenuti periodicamente sotto controllo e spesso necessitano di interventi reiterati per scongiurare il rischio della perdita dell’arto. “Convivere con l’osteomielite è possibile se vengono messi in atto una serie di comportamenti virtuosi, soprattutto nel debridement (procedura per rimuovere tessuti morti o infetti) e copertura della ferita – spiega il prof. Filippini –. La terapia antibiotica, nelle forme ormai cronicizzate, anche quando correttamente impostata, non è efficace a causa dello sviluppo del biofilm, una “pellicola” che rappresenta un ostacolo insuperabile per i farmaci che di fatto non possono di raggiungere i tessuti vivi. L’osteomielite cronica refrattaria trova invece una risposta nella chirurgia ortoplastica in grado di eliminare i tessuti infetti, necrotici e necrobiotici e nel contempo porre le basi della fase ricostruttiva al fine di preservare l’arto”.