“Nei giorni scorsi è stata riportata la notizia della cessione di un altro terminal portuale.

Esce di scena un’altra famiglia di imprenditori ravennati, i Ravaioli, e subentra una società cinese, Ferretti (un colosso dal nome italiano ma posseduto quasi interamente dal Weichai Group della Repubblica Popolare Cinese). In realtà non cambia solo la proprietà. È proprio il terminal portuale a chiudere i battenti perché l’acquirente si occupa di costruzione di yacht e non di carico/scarico merci. Prima che da Ravaioli i cinesi avevano già fatto shopping da Rosetti, acquistando l’insediamento a fianco, entrambi in affaccio alla Piallassa del Piombone. Scorrendo all’indietro nel tempo i giornali si trovano molte altre cessioni parziali o totali. Così i rimorchiatori già della famiglia Vitiello (originaria di Napoli ma a Ravenna da decenni) ora appartengono al grande gruppo ginevrino MSC. Itelyum, un grosso gruppo specializzato nel settore oli esausti controllato da un fondo londinese, ha acquisito la stragrande maggioranza dei due insediamenti di Secomar e Ambiente Mare, comprandoli dalla famiglia ravennate dei Cirilli. Restando tra gli operatori portuali, all’inizio dell’anno era già stato comunicato dalla stampa che un altro fondo, americano questa volta, stava per mangiarsi il gruppo Setramar, lasciando quote di minoranza alla proprietà originaria, la famiglia ravennate dei Poggiali. E si tratta di terminal e banchine sparpagliate in tutto il porto in capo al più grande gruppo terminalistico ravennate: oltre alla Setramar che dà il nome al gruppo (in San Vitale), c’è Lloyd Ravenna in Largo Trattaroli, Soco nella Piallassa Piombone, ecc. ecc. E si potrebbe continuare l’elenco delle nuove proprietà extra-ravennati con il terminal traghetti, quello delle crociere e altri a vocazione industriale. E poi agenzie marittime, case di spedizione… Il movimento, comunque, è sempre in direzione di uscita: un processo in atto da tempo che vede tanta imprenditoria ravennate in uscita dalle attività portuali ed il controllo dello scalo affidato a mani che tirano i fili ben lontano da Ravenna.

Si sta realizzando, insomma, proprio l’opposto del disegno per la rinascita del porto moderno di Ravenna concepito nel dopoguerra da quei Cavalcoli e Zaccagnini cui sono state dedicate le grandi dighe di Porto Corsini e Marina di Ravenna. Ravenna è stata un’eccezione nel mondo dei porti italiani. Mentre la più parte dei porti è stata realizzata dalla mano pubblica dello Stato attraverso enti pubblici appositamente costituiti per lo scopo, a Ravenna è andata diversamente. Prima è stata costituita la Sapir, nel 1957, società di diritto privato e non ente pubblico, e poi è stata emanata la legge per realizzare il porto moderno affidandone il compito alla stessa Sapir, quella legge del 1961 che prende il nome dell’allora Ministro dei Lavori Pubblici proponente, il ravennate Benigno Zaccagnini. La logica era quella di evitare che, attraverso lo Stato centrale, il controllo del porto si trovasse lontano da Ravenna, nelle mani di un ente portuale guidato da Roma, gestore di un demanio portuale comprensivo di terminal e banchine. E mentre altrove, dove tutto il porto è statale, sono stati dati in concessione, a seguito di un procedimento di natura pubblicistica, depositi, piazzali e banchine, a Ravenna la maggior parte degli spazi è rimasto privato e nella pancia di Sapir, anche dopo la conclusione dei lavori. I terminal, tutti su suolo privato, sono stati dunque assegnati con decisione assunta dai poteri locali, determinando di fatto (per conseguenza) a chi sarebbero andati gli unici spazi pubblici, cioè le banchine antistanti i terminal già distribuiti.

L’uscita di scena delle famiglie ravennati fa perdere ai poteri locali gran parte della capacità di condizionamento dei destini del porto, che ora dipendono esclusivamente dalle decisioni assunte in autonomia da soggetti, nazionali o stranieri, comunque meno sensibili ai desiderata cittadini. La residua capacità di condizionamento rimane ora nella sola Sapir che, oltre al terminal omonimo nel porto San Vitale, controlla anche Terminal Nord, in Largo Trattaroli e, in parte, il terminal container (TCR), oltre a società minori. Sapir, d’altra parte, non è una società interamente pubblica, per quanto soggetti pubblici ne detengano circa il 52%.  Il principale azionista è Ravenna Holding (partecipata da 4 comuni, tra cui quello di Ravenna è il più importante, con una quota del 77%, e dalla Provincia di Ravenna) con quasi il 30% e poi la Cassa di Risparmio (14% circa), la Compagnia Portuale (13% circa), la Camera di Commercio (11% circa), la Regione Emilia-Romagna (10% circa) e poi il Gruppo ENI e il gruppo PIR (entrambi con quote del 7,5% circa). Il restante 7% è suddiviso tra altri soci minori. Se guardiamo al passato, anche recente, ci accorgiamo che, prescindendo dall’irrilevante occupazione di qualche poltrona, le Istituzioni non stanno dando alcun impulso alla direzione in cui dovrebbe muoversi il porto. A parte alcune battute di dubbio gusto (qualcuno ricorderà, forse, quella sull’antifascismo dei fondali…) lo stesso de Pascale si è limitato a seguire quanto altri (privati) hanno dettato, mancando di visione propria e di qualunque disegno per quello che, invece, è patrimonio della collettività e dovrebbe avere come prima missione il benessere di quest’ultima, non di pochi selezionati singoli. Dunque, vien da dire, poco cambierà per il Sindaco & soci dal nuovo assetto del porto.

Come Ravenna in Comune, invece, rileviamo come si stia definitivamente perdendo da parte della collettività che lo ha realizzato, con costi pubblici (ma anche umani) altissimi, la possibilità di incidere su fattori quali impatto occupazionale, economico, ambientale di quella che è ancora la più grande industria ravennate: il porto. Le conseguenze si sentiranno maggiormente negli anni a venire. Se non ci si pone rimedio il porto sarà sempre più aperto solo a nuove partenze ravennati e nuovi ingressi di proprietari non ravennati. Manchiamo di ottimismo: da quando siamo fuori dal Consiglio Comunale, infatti, anche il tema del “porto” sembra aver abbandonato le sedi della rappresentanza popolare per accomodarsi, forse più confortevolmente, nei lontani salotti delle multinazionali”.