“Leggiamo sulla stampa locale che dal 7 ottobre sarà attiva la “culla per la vita” allestita già dalla primavera all’interno del cortile della parrocchia di Santa Maria del Torrione. Il progetto è dell’associazione Medici Cattolici Italiani che tramite una raccolta fondi è riuscita a raccogliere i 30 mila euro, indispensabili per la realizzazione della struttura.

Leggiamo che la culla per la vita è dotata di una serie di dispositivi che garantiscono il massimo della sicurezza. Quando un bambino viene posto nella culla, parte in automatico un allarme e si accende una telecamera interna sorvegliata 24 ore su 24 da volontari e dalla parrocchia stessa che, in caso di abbandono, attiveranno il 118 e la Neonatologia dell’ospedale.

Abbiamo qualcosa da dire. Il massimo della sicurezza. Di chi?

Il massimo della sicurezza per la donna e per chi sta per nascere è garantita solo ed esclusivamente in una struttura ospedaliera pubblica. In ospedale un neonato abbandonato, o che potrebbe esserlo, anche in situazioni di buona salute, viene ricoverato nel reparto di terapia intensiva neonatale per avere assistenza costante. Per quanti protocolli e intese si possano mettere in campo, la culla per la vita rimane una struttura esterna e lontana dall’ospedale pertanto la presa in carico della neonata o del neonato è meno immediata. La presa in carico della madre, che vive un momento di estrema difficoltà da un punto di vista sanitario e psicologico, è pressoché impossibile.

Leggiamo che è stata scelta la parrocchia del Torrione perché è in posizione defilata e garantisce la tutela dell’anonimato anche per l’assenza di telecamere.

Abbiamo qualcosa da dire.

In una città disseminata di telecamere, per tutelare l’anonimato non è sufficiente che non ci siano telecamere puntate sulla culla per la vita. Nel nostro paese l’anonimato è garantito da un Decreto del Presidente della Repubblica (DPR 396/2000 art. 30, comma 2) che consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’ospedale in cui è nato affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della madre rimane per sempre segreto e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”. Non solo. Negli ospedali esiste una rete di tutela, formata da ginecologici, ostetriche, psicologi e assistenti sociali, che garantisce supporto alle donne che scelgono di non riconoscere il neonato in totale anonimato.

Leggiamo che una volta chiusa la porta esterna non sarà più possibile riaprirla.

Abbiamo qualcosa da dire.

La porta della culla per la vita si chiude per sempre in pochi secondi e invece è un diritto della madre avere un tempo di 10 giorni in cui poter ripensare. Chi lo garantisce? Sempre l’ospedale. La rete di tutela cerca di capire quali sono le condizioni che determinano la rinuncia alla genitorialità e valuta possibili soluzioni. Lo scorso aprile Cristina Marzari, ostetrica dell’ospedale di Ravenna e coordinatrice dei punti nascita del Santa Maria delle Croci e di Faenza, ha dichiarato che “senza questo lavoro di rete, i numeri degli abbandoni nel territorio sarebbero sicuramente superiori”.

Leggiamo che la culla è pensata soprattutto per le donne straniere che, dice Don Paolo Pasini, “per quello che mi è stato detto, si tratta di prostitute che potrebbero essere in pericolo se si scoprisse la loro gravidanza o di donne che non sono nelle condizioni di poter mantenere un figlio”.

Abbiamo qualcosa da dire.

Chi mette maggiormente in pericolo, anche di vita, le donne straniere perlopiù prostitute sono gli uomini perlopiù italiani. Inoltre nella nostra città da molti anni è attivo un progetto che prevede azioni di protezione immediata e immediata assistenza sanitaria e consulenza legale alle donne vittime di tratta e grave sfruttamento.

Dunque vogliamo dire che non esiste il problema?

Tutt’altro. Esiste eccome e proprio perché esiste, e se davvero la vita vogliamo tutelarla, la maternità, qualsiasi esito essa abbia, deve essere riportata nella dimensione del servizio pubblico.

Da almeno 15 anni né l’azienda sanitaria né il Comune di Ravenna si sono fatte promotrici di campagne di informazione e comunicazione della possibilità di partorire in anonimato e in sicurezza presso le strutture ospedaliere pubbliche. Quanto tempo ancora le donne devono aspettare per essere adeguatamente informate sui loro diritti e sulle possibilità di fare scelte consapevoli sulle loro vite?”