È di questi giorni la celebrazione di un porto di Ravenna finalmente in ripresa nel mese di aprile. Fosse vero, perché, a guardarci bene, l’unico settore in espansione è quello dei traghetti sulla linea Ravenna-Brindisi-Catania, ma solo perché la società Grimaldi, avendo assunto il monopolio delle autostrade del mare, compresa questa di Ravenna, ha potuto mettere in mare una terza nave a suo supporto, mentre prima restava a terra una grande quantità di mezzi. Il traffico dei container, che rappresenta il valore più forte e determinante di ogni porto commerciale, e verso cui Ravenna destina svariate centinaia di milioni di euro, continua ad affogare nella stagnazione, se è vero che i 17.127 teus di aprile 2021 e i 17.135 del 2020 sono lontani anche dai 19.654 del 2019, che erano già poca cosa. Quali interessi allora si celano nell’alto investimento a beneficio di Sapir che intende costruire una banchina nuova lunga oltre mille metri per un nuovo terminal container in Largo Trattaroli atto ad ospitare navi di quasi 400 metri, sempreché superino la curva di Marina di Ravenna? Con gli attuali immutabili standard, già l’attuale terminal di San Vitale è sovradimensionato, come dimostra una gru a carroponte completamente rotta da svariati mesi destinata forse al ferrovecchio. Perché si continua a sostenere un impegno smisurato di pubblico denaro per una società che è pubblica solo per finta?

Tornano in mente, da una recente visita del vicesindaco Fusignani ai terminal della SAPIR, le sue parole di plauso per “l’importante accordo commerciale concluso da Sapir con Vesco per la movimentazione delle argille. Di queste però, insieme ad altri inerti, quali caolini e fedspati, il porto di Ravenna non sa che farsi, avendone migliaia di tonnellate stoccate ad ammuffire nel terminal nord, occupandolo quasi interamente. Per i ravennati estranei al porto sono le montagne grigie e invereconde che vedono dal cavalcavia di via Trieste quando vanno o tornano da Marina di Ravenna. Per chi lavora nel porto, esclusi i pochi occupati dalla Sapir in tale settore, rappresentano però uno sconsolante fallimento, perché sottraggono al nostro scalo il poco spazio disponibile per le merci varie, ben altrimenti appetibili. Tutto ciò, mentre uno studio commissionato proprio da Contship, società toscana che concorre a gestire il terminal container della Sapir, dimostra come il porto di Ravenna non funzioni nemmeno come porto regionale, essendo utilizzato, oltreché da nessuna azienda della Lombardia e del Veneto per spedire o ricevere merci, solo da un quinto delle aziende dell’Emilia-Romagna per spedire le proprie.

Sbarcare materiale inerte a 5 euro la tonnellata, togliendo spazio allo sviluppo delle merci varie, che danno un introito dalle 15 alle 20 volte superiore, significa una débacle non solo finanziaria, ma della forza lavoro, giacché questa merce non ha praticamente necessità di manodopera, producendo solo ricavo di magazzinaggio. Avevamo molta merce varia a Ravenna. Spedivamo tubi, casse, serbatoi e project cargo diretti in Medio Oriente. Poi la politica di Sapir è cambiata: avere meno personale, occupando piazzali e magazzini per stoccare un materiale povero come l’argilla, il caolini e il feldspato. Con la crisi economica internazionale, che ha ridotto del 20% la richiesta delle aziende ceramiche di ritirare da Ravenna parte dei loro grandi quantitativi di inerti deposti presso la Sapir, si sarebbe invece dovuto, e si dovrebbe, puntare sulla ricerca di nuovi mercati e di nuovi traffici merci capaci di riportare attività vitali, non statiche e improduttive, nel nostro scalo. Attività capaci di dare lavoro non solo a pochi terminalisti, ma a tutta la catena logistica, comprendente i trasportatori, le agenzie marittime, gli spedizionieri e tutti coloro che hanno un’attività strettamente correlata o dipendente dal porto di Ravenna.

Sarebbe forse bastato, e basterebbe, che la Sapir, società pubblica nelle mani della politica poco trasparente, fosse retta da imprenditori veri e capaci. Perché il nostro è un porto commerciale, non un deposito merci.