Alla fattispecie dei suicidi per amore si deve aggiungere ora quella dei suicidi per amianto. È la logica conclusione cui si arriva con la sentenza della cassazione che mette la parola fine al processo per le vittime di asbestosi del petrolchimico. Quella ottantina di persone, tra morti e malati, da cui prese le mosse l’indagine durata quattro anni e conclusasi nel 2013. Una cinquantina le persone sotto inchiesta per omicidio colposo plurimo: i vertici del cane sei zampe, che tra il 1956, anno di insediamento dell’azienda e il 1992, quando l’amianto fu messo fuorilegge, diressero il petrolchimico ravennate. Con un picco di morti atteso proprio in questi nostri anni.

Ora la cassazione, a cinque anni dal giudizio di primo grado, ha deciso: nessun colpevole. Nessun dubbio che le vittime siano tali, che a causare il danno sia stata l’asbestosi, e nemmeno che sia stato proprio il lavoro nello stabilimento a contatto con le fibre di amianto a causarlo. Dunque, diciamo noi, se ci sono i morti ma tutti i possibili assassini sono stati assolti “per non aver commesso il fatto”, deve trattarsi per forza di suicidio da parte dei lavoratori.

Del resto accade lo stesso nei processi per infortunio. I padroni non arrivano mai a processo. I manager sono indagati e solo qualche volta rinviati a giudizio. I presunti colpevoli, spesso, sono solo altri lavoratori dietro cui i veri colpevoli si nascondono. Oppure, anche qui, i giudizi si concludono con sentenze da cui risulta che i lavoratori sono morti facendo tutto da soli.

«Questa sentenza ci ricorda però che non ci sono solamente gli infortuni sul lavoro, ma anche malattie professionali che producono ancora più vittime, oltre il doppio, e non fanno nemmeno numero a livello statistico» ha dichiarato il magistrato Roberto Riverso, per molti anni giudice del lavoro a Ravenna ed ora giudice di cassazione. E poi ha aggiunto: «Esiste un enorme problema di legalità del lavoro, anche a Ravenna, che espone i lavoratori a rischi di cui non sono nemmeno consapevoli. Bisogna attivare tutti i meccanismi esistenti, per sanare l’enorme scarto tra le regole e la loro applicazione».

Come Ravenna in Comune lo chiediamo con forza da tempo alle istituzioni e, prima di tutto, a quelle democraticamente elette localmente, dove le morti si producono, giorno dopo giorno. Attiviamo tutti i meccanismi esistenti per sanare l’enorme scarto tra le regole e la loro applicazione. Tra questi, il Sindaco si decida finalmente a spostare in sede comunale, dove è il suo posto, l’Osservatorio sulla sicurezza e la legalità del lavoro. Il “nostro” Osservatorio, che ci siamo conquistati in cinque anni di lotte in Consiglio Comunale e che il Sindaco però non ha voluto si realizzasse in Comune. Ora langue in Prefettura. Le commemorazioni e le corone non possono bastare.