Sono state diffuse le motivazioni. Quelle dell’assoluzione in un processo per stupro che ci aveva visto, assieme a tante, ma anche tanti, a manifestare in un lungo corteo conclusosi davanti al Palazzo di Giustizia di Ravenna. L’assoluzione riguardava due uomini, due trentenni, dall’accusa di stupro di una ragazza di diciotto anni. Nonostante lo “stato di non piena lucidità” dovuto alla condizione di ubriachezza della ragazza fosse stato giudizialmente accertato, per lo stesso giudizio, “il fatto non costituisce reato”.

La manifestazioni si è svolta il 18 febbraio scorso. Come Ravenna in Comune lo avevamo promesso: «Restiamo in attesa delle motivazioni della sentenza per commentarla, quando saranno rese note, di qui a tre mesi». Ne sono trascorsi cinque, invece, ma onoriamo la nostra promessa perché non è vero che le sentenze vadano sempre rispettate e non se ne possa parlare. All’opposto, la pubblicità che viene data ai giudizi è strettamente legata al fatto che non sono atti segreti, riservati a pochi intimi. La giustizia riguarda tutte e tutti e non solo chi ha subito un danno e chi si deve difendere dall’accusa di averlo compiuto. I principi della pubblicità dei processi e della libera manifestazione del pensiero sono diritti basilari incontestabili. E irrinunciabili in democrazia.

Dopo aver letto quanto riportato dalla stampa relativamente alle motivazioni che hanno condotto all’assoluzione, dunque, siamo in grado di confermare apertamente il nostro dissenso. La ragione è quella già esposta: solo il consenso esplicitamente espresso da una persona in grado di formularlo in piena consapevolezza può essere considerato tale in un rapporto sessuale, appunto, consenziente. Ciò non è avvenuto nel caso illustrato dalla sentenza, dove invece è il giudicante che, a posteriori, procede a stabilire se da quanto avvenuto possa ricavarsi un rapporto consenziente. E qui ci inseriamo in una tradizione giuridica che sposta l’attenzione sulla vittima, le cui azioni, comportamenti, movimenti sono scandagliati per valutare il grado di sottrazione al rapporto. È qui che la sentenza sottopone a giudizio la vittima, e come questa “di contro, interagisce, muovendosi, tenendo le gambe alzate, appoggiandogli un braccio sulle spalle e una mano su viso e nuca”. Ciò che porta la Corte a giudicarla «pienamente in sé, e quantomeno in grado di esprimere validamente un consenso». Espresso come? “Con la mimica e la gestualità» dice la Corte. È la vittima ad andar sotto processo, ancora una volta, come in tanti altri casi. È la vittima a dover subire il giudizio. È la vittima a dover dimostrare “innocenza” rispetto a comportamenti potenzialmente “colpevoli” perché ritenuti causa di quanto avvenuto.

Ravenna in Comune è forza politica impegnata sul territorio e ha il rifiuto di ogni violenza maschile sulle donne e la previsione di misure per contrastarla come parte integrante del proprio programma politico. Lo ribadiamo qui, come lo abbiamo urlato nelle piazze e nei cortei: solo “sì” è “sì”. Solo se si garantisce sicurezza e giustizia a chi teme di essere sottoposta a violenza, potremo avere donne disposte ad una denuncia formale, non temendo il rischio di pagarne poi le conseguenze a livello personale. Sentenze come quella di febbraio vanno, invece, in una direzione diversa e inaccettabile.