“Vicino a chi soffre, insieme a chi cura”: il motto che l’Istituto Oncologico Romagnolo ha scelto per parlare della propria missionriassume perfettamente un’attività quotidiana fatta di iniziative di raccolta fondi a sostegno della ricerca e dell’acquisto di nuovi macchinari per gli ospedali del territorio, di servizi gratuiti che rendano il percorso di cura del paziente che lotta contro il cancro e dei suoi famigliari il più agevole possibile, di laboratori di prevenzione e diagnosi precoce. In questo senso definire prezioso il lavoro che i volontari, circa 500, prestano ogni giorno in maniera del tutto altruistica all’organizzazione no-profit fondata nel 1979 dal prof. Dino Amadori è assolutamente riduttivo ed eufemistico: il valore aggiunto che queste persone riescono ad apportare nel miglioramento della presa in carico e della qualità di vita dei malati è riconosciuto anche e soprattutto da quegli stessi medici e operatori che nella pratica decidono i migliori trattamenti e somministrano le terapie. Le nuove esigenze di sicurezza imposte dalla pandemia hanno costretto tuttavia questo motto a nuove declinazioni: in un periodo di distanziamento sociale e di esigenza di tenere il virus fuori dai reparti la vicinanza, specie quella ai pazienti in corsia, non era più possibile.

Ma è giunto finalmente il momento di tornare a fare pratica di solidarietà in presenza: anzi, dopo lo scollamento sociale che due anni e più di emergenza sanitaria hanno creato, la necessità di tornare a dare valore alle relazioni ed ai rapporti umani è quantomai urgente. Ed è con questo spirito che il 14 marzo le porte dell’Oncologia dell’Ospedale “degli Infermi” di Faenza si sono spalancate nuovamente ai volontari dell’Istituto Oncologico Romagnolo, che torneranno ad essere quella compagnia, quell’orecchio amico, se vogliamo anche quella guida e quell’esempio positivo dettato dall’esperienza di chi da un certo percorso di cura ci è passato in precedenza e l’ha portato a termine con successo, che rappresentavano già prima di quel fatidico febbraio 2020. Una distanza dalle corsie lunga tre anni che è giunto il momento di colmare, come affermato dal dott. Stefano Tamberi, che prima di diventare capo dell’intera struttura oncologica della Provincia di Ravenna era stato Primario proprio del dipartimento di Faenza: «In questi ultimi anni ci siamo concentrati sull’attività clinica e sulle procedure anti-Covid, cosa che da parte nostra ha ridotto fortemente la possibilità di vicinanza ai pazienti: per fare un esempio banale basti pensare a quanto comunicare una nuova diagnosi di cancro con la mascherina addosso abbia inficiato sull’empatia e su un buon rapporto tra medico che cura e malato che viene curato. La presenza dei volontari in reparto da questo punto di vista ci dà una grossa mano: non solo ci permette di migliorare la qualità della nostra assistenza ma rappresentano una sorta di “antenna” sulle nuove esigenze delle persone che afferiscono al nostro reparto. In questo modo possiamo essere sempre informati sulle necessità concrete dei nostri pazienti, al di là della mera cura, e dare a queste le risposte più adeguate, grazie anche alla collaborazione continua che ci lega da tanti anni allo IOR e che ha portato, e continuerà a portare, alla realizzazione di tanti progetti».

«Se lo IOR è riuscito a entrare così tanto nella pelle e nella cultura della popolazione romagnola è anche e soprattutto perché è quella organizzazione che, dal 1979, garantisce attraverso i suoi volontari una presenza concreta – ha aggiunto il Direttore Generale IOR, Fabrizio Miserocchi – il Covid ci ha imposto nuovi modi di far la differenza e di assicurare il nostro valore aggiunto al territorio, ma è chiaro che la distanza snatura la nostra essenza. Oggi è un bel giorno per noi e per i nostri volontari, che possono tornare a fare quello che gli è mancato in tutti questi anni: donare la propria presenza, discreta ma fondamentale. Posso assicurare che, se per lo staff dell’Oncologia “degli Infermi” di Faenza non è stato facile dover rinunciare alla loro opera, anche per il nostro “popolo” restare lontani tanto tempo dai pazienti è stata una sofferenza. Non c’è volontario, infatti, che non affermi che dalla relazione col malato e col suo famigliare non ne esca molto più arricchito di quanto senta di donare. Si tratta di un circolo virtuoso di cui beneficiano tutti, persone, medici e operatori: siamo quindi molto felici di tornare ad essere qui, a Faenza, in presenza».