“Buongiorno, le scrivo questa mail per raccontarle una storia che spero possa avere un piccolo spazio di lettura. Mi chiamo Letizia Belli e sono una studentessa dell’università di Bologna all’interno della facoltà “Diplomatic and International Sciences”.
Ma oggi non le scrivo per questo. Le scrivo in quanto il 31 marzo sarebbe il centenario di mio nonno Elio Belli, il quale è stato riconosciuto come IMI: internato militare italiano. Nel 2020 ci è stata consegnata la sua medaglia d’onore postuma per onorare la sua partecipazione alla seconda guerra mondiale.
Io e mio padre, Bruno Belli, abbiamo scritto una sua breve memoria per ricordare la sua esperienza in guerra, nei lager e per condannare la guerra sotto ogni punto di vista. Secondo me potrebbe essere una bella storia da raccontare visto il periodo storico, soprattutto perché coinvolge un cittadino ravennate direttamente.
Cordiali saluti.
Letizia.”

 

Ecco la storia: COME RICORDO PER TUOI 100 ANNI.

“A tutti coloro che stanno leggendo questo post, oggi voglio prendervi un po’ del vostro tempo per parlarvi di Elio Belli, mio padre, nel giorno del suo 100°anno di nascita. Elio oggi compirebbe 100 anni e voglio ricordarlo perché dal suo vissuto, possiamo comprendere e condannare l’orrore a cui tutti stiamo assistendo con le immagini dell’attuale guerra. Oggi la guerra è tornata in Europa, qualcosa che ci sembrava impensabile fino a qualche settimana fa. Mio padre però la guerra l’ha vissuta sulla sua pelle.
Era nato a Montescudo, sulle colline riminesi, in un ambiente rurale dove esistevano da sempre regole ferree: la giornata iniziava ancora senza luce e terminava al tramonto. Le donne dovevano accudire la casa, figlie gli animali mentre gli uomini nei campi oppure cercando qualcuno che avesse bisogno di braccia. Sua madre (mia nonna) si chiamava Assunta, durante la stagione estiva andava a piedi verso Riccione per lavorare nei bagni come cuoca e friggere il pesce, per i pochi fortunati che trascorrevano le vacanze inspiaggia. Nel 1937 mio padre insieme alla sua famiglia, si trasferirono a Ravenna per cercare un lavoro migliore ed andarono a vivere nelle cosiddette Case Nuove, tra via San Mamma e via Ravegnana. Alla fine degli anni ’30, l’Europa attraversava un periodo che avrebbe cambiato per sempre le speranze dell’umanità.Facendo parte della leva del 1922, mio padre venne chiamato per la visita militare nel marzo del 1941 e successivamente messo in congedo provvisorio. A causa del prolungarsi del conflitto, venne richiamato alle armi.
Nel gennaio 1942, venne inviato nel centro automobilistico di Udine per ottenere la patente necessaria alla guida dei mezzi pesanti. La tappa successiva fu Bari dove venne imbarcato alla volta di Durazzo in Albania e schierato sul fonte greco-albanese; nel settembre 1942 venne trasferito al 49° autoreparto pesante a Tirana e poi a Coriza. La situazione sembrava stabile e abbastanza tranquilla. Il suo compito si limitava ad essere l’autista di un colonnello fiorentino, accompagnandolo nei viaggi dedicati principalmente all’incontro con le autorità religiose e civili della zona.
Fino a quel momento, tutto proseguiva bene anche se il fronte greco albanese stava iniziando a cedere, sotto gli attacchi dei partigiani aiutati dagli inglesi e dalle altre forze alleate. Il nostro esercito, male armato e anche mal comandato, non avrebbe potuto sostenere il conflitto, senza l’aiuto dell’alleato tedesco, venuto a salvarci prima in Grecia, poi nel Nord Africa.
La svolta arrivò l’8 settembre 1943, data che segnerà per sempre la storia del nostro paese. L’Italia firmò l’armistizio con gli angloamericani e pertanto il nostro esercito rimase senza ordini, allo sbando. Non dimentichiamoci però che noi avevamo firmato il famoso Patto d’Acciaio, con la Germania di Hitler e con il Giappone. Pertanto, gli italiani divennero in pochi minuti nemici e traditori dei precedenti alleati. I Tedeschi non potevano più contare su di noi, pertanto disarmarono e fecero prigioniere le truppe italiane.
Mio padre venne catturato dai tedeschi a Coriza, pochi giorni dopo trasferito sulla costa Albanese. Successivamente, venne portato in Germania tramite un treno bestiame fino a Trieste, poi da Trieste a Meppen, nel nord della Germania, vicino all’Olanda. La sua fortuna è stata quella di non salire sulle navi che imbarcavano prigionieri, perché alcune furono silurate da sottomarini inglesi presenti in Adriatico. Tornando a noi, Meppen era una zona paludosa vicino al Reno, che fungeva da smistamento verso i campi di concentramento situati nei territori del Reich. Da lì, mio padre venne trasferito allo Stammlager VIJ, situato a Krefeld, località dove erano presenti acciaierie e altiforni della Krupp. Krefeld era posizionata tra Rheinhausen e Duisburgsulle rive del Reno, nel bacino della Rhur, una delle zone industriali strategiche del Reich. Nel campo di concentramento di mio padre, vi erano principalmente ex-soldati italiani, russi e francesi, ma anche donne di origine russa e polacca, obbligate al lavoro coatto, nelle fabbriche per rimpiazzare gli uomini che andavano al fronte. Gli italiani però non erano considerati prigionieri di guerra secondo la Convenzione di Ginevra, ma essendo dei traditori, il loro trattamento era diverso. Erano etichettati come IMI, internati militari italiani, per cui i tedeschi non applicavano a loro quello che le regole di Ginevra stabilivano. All’alba, dal lager venivano fatti marciare tra gli insulti della popolazione, chiamati per disprezzo «Badoglio» presi a calci e a sputi, alle acciaierie, per lavori forzati giorno e notte.
Il peggio arrivò negli ultimi mesi del conflitto, tra l’inverno del1944/1945, quando ormai la Germania era stremata e i bombardamenti alleati non avevano fine. I prigionieri, ovviamente, non potevano accedere ai bunker e ai rifugi antiaerei con i tedeschi, ma venivano lasciati all’interno degli stabilimenti.L’unica soluzione era pregare che la bomba non cadesse su di loro,  tentando di ripararsi sotto i macchinari.
Il 13 marzo 1945 gli alleati attraversarono il Reno e liberarono l’area dove si trovava mio padre. Il 31 marzo 1945 mio padre era libero di circolare a Duisburg e compiva 23 anni, non lo si poteva considerare un giovane, ma un uomo.
Ad aprile 1945, con poco più di 40kg di peso, mio padre venne ricoverato all’ospedale americano di Duisburg per tifo petecchiale. Una volta guarito, ripartì con mezzi di fortuna verso l’Italia, dove arrivò nel settembre 1945, dopo un viaggio durato mesi.
Mia nonna non aveva la certezza che fosse vivo. Quel giorno fu una gioia per tutti.
Mio padre non ha per tanti anni voluto parlarmi di questa esperienza tragica, ma non ha mai provato odio verso i tedeschi. Questo perché durante il suo soggiorno in Germania ha visto anche tanti di loro vittime della guerra.
Mandato a lavorare per spalare macerie dei bombardamenti, dovette rimuovere corpi di bambini, donne, civili tedeschi.
Purtroppo però la difficoltà non terminarono con la guerra.
La tubercolosi lo colpì nel 1946, eredità delle condizioni di vita presenti nello Stammlager. Quello che però voglio ricordare oggi di lui è legato a questa medaglia che pubblico. Gli è stata assegnata postuma il 30 gennaio 2020, qui a Ravenna, nella sua città. Ciò che questa medaglia racchiude è il suo coraggio, la sua bontà, la sua semplicità e il suo amore verso la sua famiglia. Buon compleanno babbo, oggi sarebbero 100. In suo ricordo.”